LA DIVISIONE DEL LAVORO: due opposte visioni

L'economista scozzese Adam Smith (1723- 1790), attento testimone delle prime fasi della rivoluzione industriale, ci spiega in cosa consiste la divisione dei lavoro e ce ne descrive i grandi vantaggi.

Prendiamo dunque come esempio una manifattura di modestissimo rilievo, ma in cui la divisione del lavoro è stata osservata più volte, cioè il mestiere dello spillettaio. [...] Dato il modo in cui viene svolto oggi questo compito, non solo tale lavoro nel suo complesso è divenuto un mestiere particolare, ma è diviso in un certo numero di specialità, la maggior parte delle quali sono anch'esse mestieri particolari. Un uomo trafila il metallo, un altro raddrizza il filo un terzo lo taglia, un quarto gli fa la punta, un quinto lo schiaccia all'estremità dove deve inserirsi la capocchia; fare la capocchia richiede due o tre operazioni distinte; inserirla è un'attività distinta, pulire gli spilli è un'altra, e persino il metterli nella carta è un'altra occupazione a sé stante; sicché l'importante attività di fabbricare uno spillo viene divisa, in tal modo, in circa diciotto distinte operazioni che, in alcune manifatture, sono tutte compiute da mani diverse, sebbene si diano casi in cui la stessa persona ne compie due o tre. Io ho visto una piccola manifattura di questo tipo dov'erano impiegati soltanto dieci uomini e dove alcuni di loro, di conseguenza, compivano due o tre operazioni distinte. [...) Quelle dieci persone riuscivano a fabbricare, fra tutti, più di quarantottomila spilli al giorno. [...] Se invece avessero lavorato tutti in modo separato e indipendente e senza che alcuno di loro fosse stato previamente addestrato a questo compito particolare, non avrebbero certamente potuto fabbricare neanche venti spilli al giorno per ciascuno, forse neanche un solo spillo al giorno.

[da A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Mondadori, Milano 1977]
Quello che segue è un appello scritto da un anonimo journeyman cotton spinner (filatore di cotone a giornata) pubblicato da un giornale nel 1818. Da notare quanto la visione dell'anonimo filatore sia lontana, e assai meno ottimistica, di quella di Smith, riportata nell'altro brano.

Gli operai, in genere, sono inoffensivi, umili. [...] Sono docili e trattabili se non gli si sta troppo al pelo: ma questo non può far meraviglia, se si pensa che da sei anni di vita sono allenati a lavorare dalle ore cinque alle venti e alle ventuno. Che uno dei predicatori di ubbidienza al padrone si metta un po' prima delle cinque nel viale di accesso a una filanda e osservi lo squallido aspetto dei fanciulli e dei loro padri o madri tirati giù dal letto ad ora così n mattutina con ogni sorta dl tempo; esamini la razione miserabile di cibo, quasi sempre composta di zuppa di farina con pezzi di focaccia d'avena dentro, un pizzico di sale, a volte uno spruzzo di latte, qualche patata, e un po' di lardo o pancetta, a mezzogiorno [...]. Lì stanno (e, se tardano di un minuto, gli si detrae dal salario un quarto di giornata, tappati fino a sera in locali più afosi del giorno più caldo che si sia avuto in questi mesi estivi, senza un attimo di riposo salvo i tre quarti d'ora del pasto di mezzodì: qualunque altra cosa mangino in un altro momento dev'essere consumata sul lavoro. Lo schiavo negro delle Indie Occidentali, se sgobba sotto un sole che toglie la pelle, almeno ogni tanto ha un soffio d'aria a sventagliarlo; e un pezzo di terra; e il tempo di metterlo a coltura. Il filatore inglese, schiavo anche lui, non gode l'aria aperta e le brezze del cielo. Imprigionato in fabbriche alte otto piani, non ha pace prima che la macchina poderosa si arresti; allora torna a casa per rinfrescarsi in vista dell'indomani; per la dolce associazione con la famiglia non c'è tempo; sono tutti, allo stesso grado, stanchi ed esausti.

[da E.P.Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, II Saggiatore, Milano 1969]